Ancora manca l’ufficialità, ma la fine sembra ormai inevitabile: il calcio italiano per quest’anno è finito a causa dell’emergenza Coronavirus.

Facciamo un piccolo salto nel passato e cerchiamo di capire tutti insieme cosa è successo. Il 21 febbraio viene individuato il cosiddetto “Paziente 1”, il primo caso accertato di Coronavirus in Italia.  Nelle settimane successive a questo evento in tutto il movimento calcistico italiano c’è stato parecchio caos: le regioni del Nord, le prime ad essere maggiormente colpite dal Covid-19 hanno iniziato a giocare le proprie partite a porte chiuse, con l’appello dei vari Governatori di regione che andavano chiedendo sempre più insistentemente la chiusura di tutte le attività sportive.

Al centro e al sud, invece, la situazione era diametralmente opposta: il calcio continuava a dare spettacolo, i tifosi erano ancora presenti sugli spalti e il pericolo Coronavirus era avvertito come un qualcosa di lontano e fin troppo poco pericoloso per adottare misure emergenziali, che invece poi sarebbero state adottate per tutto il Paese nelle settimane successive.

L’ultimo match giocato in Serie A è stato l’8 marzo, data in cui si è recuperata la 26° giornata di Serie A, giocata solo parzialmente una settimana prima da poche squadre.

Da quel giorno il calcio italiano, ad eccezione dell’Atalanta in Champions League contro il Valencia, non ha più visto i propri atleti scendere in campo per una competizione ufficiale.

Sono state numerose le ipotesi che si sono susseguite da quel momento in avanti, e altrettante sono state scartate: dalla finale playoff/playout per decretare promozioni e retrocessioni, passando per il congelamento della stagione attuale col conferimento del titolo sportivo e delle retrocessioni stando all’ultima giornata giocata interamente, fino all’idea assurda di recuperare questa stagione nel corso della prossima.

Tante idee, pochi fatti. Dalla Serie A fino alla Terza Categoria nessuno ha saputo più cosa fosse necessario fare per risollevare le sorti del calcio italiano, malgrado le numerose assemblee in conference-call, malgrado l’enorme diplomazia portata avanti da organi federali, dal Coni e dal Governo; nessuno è riuscito a trovare il bandolo per sbrogliare la matassa di una questione tanto delicata, quanto importante.

Sì, perché il calcio non è soltanto uno sport. Sia ben chiaro: “il calcio non è soltanto uno sport” non vuol richiamare ad una concezione romantico/sportiva dell’immaginario collettivo, bensì vuole far riflettere in termini un po’ più materiali sull’importanza del sistema calcio all’interno dell’attuale sistema economico.

Le società professionistiche non hanno a che fare esclusivamente con calciatori ben pagati e che sicuramente non stanno risentendo della crisi a livello economico, bensì con comuni dipendenti, magazzinieri, lavoratori da scrivania, la vera spina dorsale di un club, senza i quali nessuna società sarebbe in grado di costruire la propria fortuna dentro e fuori dal campo. Tanto si sta parlando in queste ore della questione monte ingaggi dei calciatori, su un accordo tra società e giocatori per la riduzione dello stipendio; tale questione, però, per quanto importante, non riguarda direttamente i calciatori, quanto i comuni dipendenti che in questo momento stanno rischiando di perdere il proprio posto di lavoro.

Non si può proporre un taglio dello stipendio ad un magazziniere che guadagna quello che gli basta per vivere, così come lo si propone al calciatore più pagato della Serie A, il quale oltre a poter vivere tranquillamente di rendita con quanto guadagnato da calciatore, ha altri introiti commerciali e imprenditoriali, che da soli sarebbero più che sufficienti al suo sostentamento.

La questione calcio, dunque, riguarda molto più direttamente le persone comuni che vivono attorno a noi che non i calciatori e le loro quarantene di lusso. Tra la prima squadra in Italia e la peggiore squadra della Terza Categoria, vi è un universo esteso di squadre medio-piccole che risentiranno enormemente di tale perdita economica, e potrebbero non essere pronte a sostenere gli impegni economici coi propri dipendenti, a tal punto da doverli licenziare. Tocca amaramente constatare che in questi casi il magazziniere è sostituibile, il calciatore no.

Tale logica non può essere portata avanti e non deve essere quella finale che verrà approvata alla fine di tutta la questione Coronavirus. Il campionato per questa stagione non riprenderà, ormai è quasi certo. A darne un’ulteriore conferma è stato in questi giorni il Ministro dello Sport Spadafora, il quale ha tuonato che per aprile non sarà possibile riprendere gli allenamenti, e che dunque non si tornerà in campo nemmeno per il 3 maggio.

Le considerazioni in seguito a tali dichiarazioni sono presto date: i calciatori a maggio si ritroveranno con una condizione fisica precaria, che richiederà di fatto non un richiamo della preparazione atletica, bensì una preparazione atletica di sana pianta, considerato che lo stop è di fatto di più di due mesi per alcuni. Pur volendo, dunque, ricominciare gli allenamenti per i primi di maggio, sarebbero necessarie almeno due-tre settimane di allenamento prima della ripresa del campionato, e la prima gara sarebbe dunque giocabile tra il 17 e il 24 maggio. Iniziando per questa data il campionato non finirebbe prima di metà luglio, volendo essere ottimisti. Considerato che nella prossima stagione calcistica, la 2020/21, ci saranno in estate Europei e Olimpiadi, non è consigliabile nemmeno iniziare il prossimo campionato da ottobre in poi, fatto che si renderebbe necessario con la fine di questa stagione calcistica a metà luglio.

Sembra dunque prendere sempre più corpo l’eventualità di fermarsi qui per questa stagione, con i verdetti su promozioni e retrocessioni ancora tutti da stabilire con modalità che dovranno essere decise dagli organi competenti.

Qualunque sia la decisione che verrà presa l’augurio è quello di non vedere inceppare una macchina così grossa e così fragile come quella del calcio italiano, perché se ciò dovesse accadere non verrebbe distrutto il sogno di un bambino o la carriera di un giocatore, bensì il mantenimento economico della gente comune, che si alza ogni mattina per guadagnarsi da vivere e che non può permettersi di restare senza lavoro per qualche mese.

Cala il sipario, si spengono le luci. Lo spettacolo è quasi finito: il calcio italiano sta per giungere al suo atto finale per questa stagione; nella speranza che il finale sia a lieto fine per migliaia di lavoratori.

1 commento

  1. La stagione deve essere portata a termine perchè la fetta maggiore dei proventi di una società deriva da contratti televisivi e sponsor e se non ci saranno partite sky,dazn ed i vari marchi non verseranno un’euro con conseguenza il fallimento della maggior parte dei club, inoltre come la gente normale ricomincierà a lavorare probabilmente senza pause estive è giusto che lo facciano anche i calciatori.

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