Se questa è una guerra, la stiamo perdendo senza attenuanti. Da settimane viene portata avanti in tutto il Paese la retorica della guerra come metafora della situazione vigente.

Da una parte ci saremmo noi, tutti, l’umanità intera che è volubile ad un virus nuovo, che non conosciamo e che ha stravolto le nostre vite; e dall’altra parte, invece, ci sarebbe questo virus arrivato alla fine dell’anno scorso in Asia che ora incombe su tutti noi.

Con questa retorica “siamo tutti sulla stessa barca” diventa il motto da portare avanti, ed il perché vien da sé: in quanto esseri viventi nessuno è immune alla malattia, al dolore, e ai disagi che questa situazione sta comportando.

Gli slogan ci servono per identificare un qualcosa in cui credere e verso cui dirigerci, una direzione da inseguire con un nemico da combattere; gli slogan così diventano il simbolo di una realtà semplificata che per nulla, a volte, spiega la situazione reale.

Tra questi numerosissimi slogan emersi in queste settimane vi è anche quello già accennato in precedenza, ovvero quello della guerra. “Siamo in guerra contro un nemico invisibile”, “i nostri medici ed infermieri sono dei militari in trincea”, e le metafore non finiscono certamente qui.

Ma quanto rispecchia veramente tale retorica della guerra l’attuale situazione e quanto, invece, non la distorce facendoci perdere la reale percezione della realtà?

Perché, è giusto ribadirlo, se questa è una guerra la stiamo perdendo senza attenuanti. La stiamo perdendo così come stiamo perdendo una o più generazioni di italiani, intere generazioni di persone con un proprio bagaglio storico, culturale e personale che nessuno potrà restituirci, che nessuna “pace” sarà in grado di riportarci indietro.

Stiamo perdendo una guerra che non eravamo pronti ad affrontare, e se non lo eravamo è a causa di scelte scellerate. La straordinarietà della situazione non giustifica, infatti, la mancanza di posti letto per le terapie intensive, così come non giustifica i tagli di personale sanitario che sono stati portati avanti da vent’anni a questa parte.

La guerra non deve essere la giustificazione per un totale tracollo della sanità pubblica italiana. La situazione che stiamo vivendo, invece, deve renderci coscienziosi di ciò che stiamo perdendo e che non tornerà più, di ciò che poteva essere limitato con ben altri mezzi e ciò che invece non è stato fatto perché ritenuto superfluo.

Non è accettabile, infatti, la strage che sta avendo luogo tra il personale sanitario, che adesso viene identificato in termini militareschi nel vano tentativo di voler mettere a posto la coscienza di qualcuno. Tutto il personale sanitario in prima linea in questa emergenza non è identificabile nei soldati in trincea, o se così dovesse essere lo sarebbe solo per un’unica ragione: la sensazione di abbandono da parte dello Stato che medici e infermieri hanno provato in questi anni adesso è diventata più forte che mai, con uno Stato che non ha saputo tutelarli adeguatamente fin dall’inizio del contagio, che non ha saputo fornire ad ognuno di loro gli adeguati mezzi per limitare le perdite, comunque inevitabili, che ci sarebbero state; tale sensazione è ascrivibile alla medesima sensazione di abbandono che avevano i soldati nelle trincee. Ma non dobbiamo andare oltre, tentando di glorificare coloro che per anni lo Stato ha abbandonato, perché sarebbe un’inutile retorica di cui non vi è alcun bisogno in un momento del genere.

Questa non è una guerra, e non siamo tutti sulla stessa barca, è ora di smetterla con tali slogan ed iniziare a guardare in faccia la realtà: ciò che stiamo vivendo è la dimostrazione dell’abbandono delle fasce più deboli della popolazione, a partire dagli anziani pensionati, lasciati nelle case di riposo senza alcuna tutela sanitaria e, a volte, senza alcuna tutela affettiva.

I nostri anziani, la nostra storia, gli uomini e le donne che nel bene o nel male hanno costruito il nostro presente, adesso noi li stiamo facendo morire, perdendo una fonte assolutamente non rinnovabile di storia, conoscenza, cultura, tradizione e affetto.

Stiamo perdendo, tutti, e non c’è guerra che tenga davanti un tale misfatto. Non siamo tutti sulla stessa barca, perché non tutti siamo esposti alle stesse fragilità fisiche e sociali, e non tutti abbiamo la possibilità di fare quarantene di lusso. Non siamo in guerra, perché questa più che una guerra è uno tsunami che ha travolto e distrutto un edificio lussuoso, pieno di luci e addobbi all’esterno, ma povero di strutture forti, di adeguati piani di evacuazione e di una degna organizzazione strutturale al suo interno.

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